sabato 27 marzo 2010

Robert Fisk su Aafia Siddiqui

Il misterioso caso della Signora Grigia di Bagram

Come una neuroscienziata madre di tre figli può finire in prigione quale agente di Al-Qa‘ida?

di Robert Fisk, The Independent

Venerdí 19 Marzo 2010

Il Dottor Shams Hassan Faruqi siede tra le sue rocce e i suoi reperti geologici, si scuote la testa barbuta e mi fissa: “Dubito fortemente che i bambini siano vivi”, dice, “probabilmente sono deceduti”. Lo dice in un modo strano, triste ma rassegnato, eppure in qualche modo pare sorprendentemente impassibile. Io congetturo che questo anziano geologo pachistano settantatreenne, quale presunto testimone della misteriosa ricomparsa, nel 2008, di Aafia Siddiqui – “la donna piú ricercata al mondo” secondo l’ex procuratore generale statunitense John Ashcroft – sia usato alla luce della ribalta. “E i bambini?”, gli domando novamente: che è accaduto ai bambini?

Il Dottor Faruqi è zio di Aafia Siddiqui e presenta una fotografia della nipote all’età di tredici anni, quando faceva una scampagnata nelle colline di Margalla sopra Islamabad, una ragazzina sorridente vestita con una tunica shalwar e appoggiata ad un albero. Ella non pare della stessa natura di cui son fatti i membri operativi di Al-Qa‘ida. Adesso però è una semiicona in Pakistan, paese che potrebbe ben essere stato coinvolto nel suo singolare rapimento e che ora la rivuole tanto disperatamente[1] indietro da una prigione americana; i suoi figli, misteriosamente e incomprensibilmente, sono stati dimenticati.

La storia di Aafia Siddiqui è tanto famosa adesso in Pakistan quanto è famigerata nell’aula di tribunale di New York City, nella quale il suo processo per tentato omicidio di un soldato americano nella città afgana di Ghazni nel 2008 è visto come un simbolo dell’ingiustizia americana: questo mese è stata riconosciuta colpevole e affronta un minimo di vent’anni di carcere per una sola delle imputazioni a suo carico. “Vergogna, America!” gridano i manifesti in tutte le maggiori città pachistane. Aafia Siddiqui è nota quale “Signora Grigia di Bagram”, torturata forse per cinque anni nella crudele prigione afgana. Il presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, ha chiesto all’inviato americano Richard Holbrooke di rimpatriare la Siddiqui in base al progetto di scambio di prigionieri fra Pakistan e Stati Uniti, mentre il Primo Ministro Yusuf Raza Gilani l’ha soprannominata “figlia della nazione”; il capo dell‘opposizione Nawaz Sharif promette di chiedere il suo rilascio. Nessuno di costoro, però, menziona i bambini: Ahmed, Suleiman, e Maryam.

Ahmed ritornò in Pakistan dall’Afghanistan nel 2008, ma il Dottor Faruqi mi dice che non crede neanche per un momento che quello sia il figlio di Aafia Siddiqui. “Venne qua per istare con me, ma disse che non conosceva Aafia finché non fu portato a Ghazni. Mi disse: “Vi fu un forte terremoto in Afghanistan, ed i miei fratelli e sorelle rimasero uccisi mentre io andavo per acqua, la qual cosa mi salvò la vita”. Mi raccontò che dopo il terremoto fu messo in un orfanotrofio di Kabul. Gli fu mostrata una fotografia di mia nipote Aafia e disse che non conosceva quella signora e non l’aveva mai vista prima. Allora fu portato a Ghazni e gli fu detto di sedersi vicino a questa donna, cioè mia nipote. Il ragazzo è intelligente, semplice e genuino”.

Tutti i misteri di tal sorta richiedono che si racconti la storia dalle origini[2]. Andò cosí: Aafia, una trentottenne neuroscienziata, ex allieva del Istituto universitario di tecnologia del Massachusetts (MIT) e dottoressa di ricerca di Brandeis, scomparve nel 2003 dopo aver lasciato la casa della sorella in direzione dell’aeroporto di Karachi, in compagnia dei figli Ahmed, Suleiman, e Maryam. Gli Americani dicono che fosse un’agente di Al-Qa‘ida di primo piano: questo secondo il suo ex marito. Si risposò con Ammar al-Baluchi, adesso nella prigione della Baia di Guantanamo, il quale è cugino di Ramzi Yousef, condannato per l’attentato al World Trade Center del 1993. Non si direbbe un sano curriculum vitae[3] nell’ossessiva “Guerra al terrore” dell’Occidente. Nel 2004 l’ONU l’identificò come membro di Al-Qa‘ida.

Alcuni detenuti, rilasciati dal famigerato carcere di Bagram presso Kabul, nella quale la tortura è abituale e almeno tre prigionieri sono stati ammazzati, hanno dichiarato che c’era una donna ivi imprigionata, donna le cui urla di ogni notte spinsero i detenuti a iniziare uno sciopero della fame. Fu soprannominata la “Signora Grigia di Bagram”. Al suo processo niuiorchese, la Siddiqui ha chiesto che siano congedati i membri ebrei della corte, ha cacciato i suoi avvocati difensori, secondo i quali è divenuta instabile dopo la tortura, e ha rivelato d’essere stata torturata in prigioni segrete dopo il suo arresto: “Se foste stati in una prigione segreta … in cui i bambini fossero stati uccisi …”, ha detto.

Poi si giunge alla città di Ghazni, a mezzogiorno di Kabul. Proprio lí fu fermata dalla polizia afgana nel 2008, mentre trasportava una borsetta nella quale si suppone che si trovassero note su armi chimiche e agenti radiologici, appunti su attacchi contro obiettivi americani per provocare disastri di massa, e mappe di Ghazni. Soldati americani e agenti dell’FBI furono chiamati a interrogarla, e giunsero a Ghazni senza capire che la Siddiqui era nella stessa stanza, seduta dietro una tenda. Secondo la loro testimonianza, ella provò a prendere uno dei loro fucili d’assalto M4 e aprí il fuoco dicendo: “Sodomia vi faccia questo qui! Possa il sangue di [segue parola incomprensibile] ricadere sulle vostre [teste oppure mani][4]”. Fallí il colpo e fu centrata da due proiettili sparati da uno dei soldati con una pistola di nove millimetri. Donde le accuse e la condanna.

Ella non è stata agevolata da una dichiarazione allegata di Khalid Sheikh Mohammed (l’uomo accusato di avere progettato l’11 Settembre, il quale è zio del suo secondo marito Ammar al-Baluchi): questi ha affermato che Aafia Siddiqui è un agente superiore in Al-Qa’ida. Khalid Sheikh Mohammed, però, era stato appena sottoposto per centottantatré volte in un mese alla tortura dell’annegamento apparente[5], la qual cosa fa sí che la sua testimonianza non sia – è davvero il caso di dirlo – a tenuta stagna[6].

Le domande sono ovvie. Perché mai un’americana pachistana in possesso d’una laurea di Brandeis si trovava a Ghazni con una borsetta contenente obiettivi americani? E, se la sua famiglia era tanto preoccupata per lei, perché non riferí della sua scomparsa nel 2003, né si rivolse alla stampa, né raccontò la storia dei bambini? Ahmed – figlio di Aafia Siddiqui ovvero orfano afgano a seconda dei punti di vista – sta adesso a Karachi con la sorella di Aafia, Fauzia, che non gli permette di parlare coi giornalisti. Gli Americani per lui non hanno mostrato alcun interesse, e ancor meno per gli altri due figli minori. Perché?

Perlomeno strano, poi, è il fatto che, secondo il Dottor Faruqi, nel 2008, prima dell’incidente di Ghazni, Aafia Siddiqui tornò alla casa di lui stesso, nei sobborghi di Islamabad. “Indossava una burqa ed uscí dall’automobile, esattamente lí fuori” dice, indicando la strada a tre strisce fuori della finestra del suo ufficio. “La intravidi una sola volta, e le dissi che il suo naso era cambiato; però era lei. Parlammo del passato e dei suoi ricordi, era lei. Disse che l’ISI, l’Agenzia di Servizî Segreti del Pakistan, l’aveva lasciata venire qua. Voleva allontanarsi, voleva tornare in Afghanistan, laddove i Talebani a suo parere l’avrebbero protetta. Disse che dal momento del suo arresto non aveva saputo niente dei suoi figli, e qualcuno le aveva riferito che fossero stati mandati in Australia”.

Altre domande. Se la Siddiqui era una “prigioniera fantasma” in Afghanistan, come fece a tornare a casa del Dottor Faruqi a Islamabad? Perché avrebbe indossato una burqa[7] nella capitale cosmopolita del suo paese? Perché non avrebbe detto di piú sui suoi bambini? Perché non avrebbe svelato il vólto a suo zio? Arrivò veramente a Islamabad?

Fauzia adesso viaggia per il Pakistan con lo scopo di propagare la notizia dell’“ingiusto”[8] processo della sorella e delle torture compiute dagli Americani. La stampa pachistana in gran parte ha trattato questa storia con poca attenzione critica per le imputazioni di Aafia Siddiqui: ella è divenuta un protomartire, un martire vivente; se però la sua storia è comprensibile, esige necessariamente un certo margine d’incredulità. D’altra parte le solenni e costanti dichiarazioni degli Americani, che affermano di non aver saputo affatto dove si trovasse costei prima del 2008, hanno un suono infelice.

E i bambini? Di loro si è scritto raramente in Pakistan, e sono realmente “scomparsi” dalla storia, finché il presidente afgano Hamid Karzai questa settimana non ha compiuto una scomoda visita in Pakistan e, secondo Fauzia, avrebbe detto al Ministro degli Interni Rehman Malik che “I bambini di Aafia saranno presto mandati a casa”. Si riferiva Karzai agli altri due bambini? O a tutti e tre, incluso il “vero” Ahmed? E se i due o tre bambini di Aafia sono in Afghanistan, dove sono stati tenuti? In un orfanotrofio? In una prigione? E chi li ha custoditi, gli Afgani o gli Americani?

Traduzione di Abdullah Nur as-Sardani


NOTE:

[1] L’espressione è di tono ironico: l’autore scrive infatti oh-so-desperately (questa e tutte le note seguenti sono del traduttore).

[2] L’autore scrive story-so-far.

[3] Locuzione latina che significa ‘percorso di vita’.

[4] In inglese “Get the fuck of here. May the blood of [unintelligible] be on your [head or hands]“.

[5] La parola waterboarding, letteralmente ‘asse con acqua’ per comprimere la testa e dare l’impressione di affogare, indica una delle torture preferite da quei sadici e pervertiti aguzzini di imperialisti americani assassini.

[6] Gioco di parole fra il suddetto verbo waterboarded e water-tight, che letteralmente vuol dire ‘impermeabile all’acqua’ e per estensione vale ‘inconfutabile’.

[7] Mi pareva strano che in una simile storia di una donna musulmana a un certo punto non saltasse fuori questa burqa, ch’è diventata ormai una fissazione psicotica collettiva per gli occidentali: ed eccola qua comparire puntuale. Si noti dunque, all’interno di questo articolo che, tutto sommato, possiamo definire sufficientemente corretto e onesto, si noti la sciocchezza della domanda: a Fisk non passa per la testa che una donna tanto spietatamente seviziata, una volta uscita di galera, abbia tutte le ragioni di proteggersi, sotto qualsiasi aspetto, con un velo integrale? Ma forse è troppo difficile per chi non è musulmano. Allahumma, barik fi-l-munaqqabat!

[8] Signor Fisk, che fa, vuole accostare il concetto di giustizia all’America? Non le bastano le migliaia di persone barbaramente ammazzate ogni anno da questo stato sterminatore d’innocenti? Che altro aspetta di vedere?

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